Quello di Ponte Cantone è uno degli eccidi più cruenti che le truppe nazifasciste commisero nei quasi due anni che trascorsero dall’8 settembre 1943 alla Liberazione. Solo uno degli oltre 5000 episodi raccolti dall’Atlante delle stragi nazifasciste in Italia, per un totale di oltre 23 mila vittime.
Parlare di Resistenza oggi non è nostalgia, è una necessità oltre che un dovere, un dovere verso quelle 23 mila persone, martiri per la giustizia, per la libertà e per la verità.
È un dovere commemorare, dal latino cum+memorare, dove cum, ovvero “con”, indica che non stiamo celebrando un ricordo privato, ma pubblico; non un ricordo per singoli, ma quello di una collettività; non il ricordo di un individuo, ma di un popolo intero.
In questa azione di cum-memorare, condividiamo un ricordo e ci riconosciamo in esso. Memorare, poi, è un’azione più profonda e forte di quella che abitualmente chiamiamo ricordo. Memorare rimanda a una narrazione, che fonda il senso del nostro stare insieme. E non è certo un ricordo che obbedisce, che tranquillizza o riappacifica, ma un ricordo inquietante, sovversivo, che strattona le nostre coscienze di fronte alla tentazione di accettare che ormai è cosa passata e che dobbiamo guardare avanti. È un ricordo infatti che pretende di non essere dimenticato o fatto scolorire, pena la perdita di senso del nostro essere cittadini.
Vi è un tema poi troppo spesso accantonato: il ruolo dei fascisti italiani. È nostro obbligo smascherare l’idea di un “fascismo buono”: a Ponte Cantone le vittime furono consegnate al plotone nazista da italiani; il carcere di Parma in cui prima del tragico episodio le vittime erano rinchiuse era un carcere italiano.
Certo, ci furono italiani e italiani: ci fu chi, come i giovani trucidati a Ponte Cantone, fecero un’altra scelta, non si arruolarono con i repubblichini. Giovani cresciuti in piena epoca fascista, che nonostante tutto ebbero la forza, la lucidità di non farsi intrappolare dagli intenti manipolatori del regime, di opporsi alla rovina e alla distruzione. Un nobile insegnamento per le giovani generazioni al pensiero critico e autonomo, decisivo per ben orientarsi e orientare la contemporaneità.
Dobbiamo essere vigili: il demone del male distrugge tutto e l’uomo non è più libero. Lo notava Primo Levi: i campi di concentramento sono esistiti perché il contesto lo permetteva; gli aguzzini che vi operavano non erano tutti dei folli, ma spesso persone comuni. Di fronte al male vi è la facilità e la possibilità di diventarne complici. Ed è anche per questo che non dobbiamo rinunciare alla capacità di scandalizzarci.
Un pensiero e un ringraziamento va a chi, in quei tragici momenti, si è assunto delle responsabilità. Abbiamo un dovere di riconoscenza per i ragazzi e le ragazze, i “ribelli per amore” che hanno speso la propria vita per la libertà. Mi sia consentito infine un ricordo di un familiare partigiano. Non ho mai conosciuto Mario Simonazzi, Azor, e ho sempre sentito questa mancanza. La sua profonda umanità è viva nei miei ideali.