Grazie, presidente. Ci riuniamo oggi, in questa giornata particolarmente dolorosa, di lutto per Giulia e tutte le donne vittime di violenza. Ringrazio l’assessora Lori per aver illustrato ciò che la Regione fa. Ci tengo davvero a ringraziare la consigliera Mori per la perseveranza, la competenza, la passione, il modo formato con cui in questi anni ha condotto la battaglia per i diritti per le donne in questa Regione.
Come Regione Emilia-Romagna lavoriamo da oltre vent’anni sulle tematiche del contrasto alla violenza di genere, sulle pari opportunità, valorizzando e sostenendo concretamente le buone pratiche dei Centri antiviolenza. Facciamo un lavoro di messa in rete tra istituzione pubblica e istituzione privata, come metodo fondamentale per mettere in campo strategie efficaci contro la violenza di genere e la diffusione di una cultura delle differenze e di contrasto agli stereotipi, rivolto soprattutto alle giovani generazioni.
Il lavoro della Regione si articola sulla base del Piano triennale di contrasto alla violenza di genere, con l’Osservatorio regionale, che consente di indagare il fenomeno da ogni punto di vista, mettendo insieme professionalità e competenze di chi già lavora per dare sostegno alle donne che hanno subìto o continuano a subire violenze.
Poi ci sono le Istituzioni. L’assessora Lori, giustamente, ha dato i dati, ricordando che dietro ogni numero c’è una persona, c’è una storia, c’è un dramma di una donna, dei suoi figli, dei familiari.
I centri antiviolenza sul territorio regionale sono 23, le case rifugio 55, i centri per uomini autori di violenza 14. Dal 2020 abbiamo investito oltre 20 milioni di euro sulla promozione delle pari opportunità, sul fondo imprenditoria femminile, sul reddito di libertà, sul sostegno dei centri.
Nel 2022, le donne che hanno contattato un centro antiviolenza per ricevere attività di sostegno e consulenza sono state 4.990. I pernottamenti totali nelle case rifugio si aggirano intorno ai 60.400. Gli uomini in percorso presso il centro uomini maltrattanti sono stati 713. I dati sui tipi di violenze subite ci dicono che il 90% sono sul piano psicologico, il 65% sul piano fisico e 42% sono violenze di tipo economico.
Il femminicidio rappresenta un reato che si consuma principalmente nelle relazioni intime. Ho letto la relazione d’inchiesta della Commissione sui femminicidi in Italia, riferita agli 2017 e 2018, e mi ha colpito particolarmente, perché tutti i femminicidi esaminati si connotano per due requisiti specifici: l’autore di violenza di genere forma la sua identità su una relazione di dominio, controllo assoluto su una donna, unico tipo di relazione che conosce, e la violenza nei confronti di questa gli serve a riaffermare e confermare il suo potere. La donna che decide di interrompere quella relazione viene uccisa perché, in molti casi, sottraendosi ai doveri di ruolo, non solo viola una regola sociale e culturale, ma rende l’uomo che glielo ha permesso un perdente agli occhi della collettività. La sanzione diventa la morte. Questo dice la relazione della Commissione dei femminicidi in Italia.
Quindi, le donne sono uccise non perché in sé fragili o vulnerabili, ma perché diventano tali nella sola relazione di dominio, o al contrario, nella gran parte dei casi, con veri e propri atti di coraggio, si ribellano all’intento dei loro aggressori di sfruttarle, dominarle, possederle e controllarle. Per quanto riguarda la distribuzione, non emergono particolari differenze né a livello territoriale, né rispetto alle caratteristiche di autore e vittime. Le età delle vittime, tuttavia, variano leggermente, di più di quelle degli autori. Le vittime estremamente giovani e anziane sono più di quanti siano gli autori appartenenti a questa categoria di età, e ciò denota una condizione di fragilità in cui in una parte dei casi si trova la donna rispetto all’uomo. Una donna anziana o giovanissima, quindi potenzialmente in condizione tendenzialmente di maggiore debolezza fisica, ha una probabilità di essere uccisa più elevata di quanto lo sia quella che un uomo anziano o giovanissimo uccida.
La distribuzione è simile per autore e vittime anche per quanto riguarda la cittadinanza: il 78 per cento delle vittime e il 78,1 per cento degli autori ha cittadinanza italiana, il 21 per cento delle vittime e il 18,8 per cento degli autori ha cittadinanza straniera. I femminicidi avvengono tendenzialmente all’interno della stessa comunità di appartenenza. L’83,9 per cento dei femminicidi viene commesso da un autore che ha la stessa nazionalità della vittima.
Il livello di mancate risposte sulle condizioni occupazionali è molto più alto per le donne, arriva a un quarto del totale, ciò avviene soprattutto nelle classi di età più avanzate.
La relazione che intercorre, invece, tra la donna vittima e l’autore al momento del femminicidio dice che più della metà delle donne vittime di femminicidio sono uccise dal proprio partner, che nel 77,9 per cento dei casi coabitava con la donna. Nel 12,7 per cento sono uccise, invece, dall’ex partner. Dunque, il femminicidio si conferma come un atto di volontà di dominio e di possesso dell’uomo sulla donna, al di là della possibile volontà di indipendenza e di rottura dell’unione della donna stessa.
Un altro dato: solo il 15 per cento delle donne aveva sporto denuncia o querela per precedenti violenze o altri reati compiuti dall’autore ai propri danni. Le denunce e le querele, quindi, avvengono in pochi casi, ma spesso quando avvengono si susseguono.
C’è sicuramente il tema del patriarcato. “C’è ancora domani”, straordinario film della Cortellesi, ci ha ricordato un passaggio storico per la nostra Repubblica nel percorso di emancipazione delle donne da una cultura che le aveva viste per secoli soccombere di fronte al dominio dell’uomo o del padre. Il 2 e 3 giugno 1946 oltre dodici milioni di donne si sono recate alle urne per contribuire alla scelta tra monarchia e repubblica. Purtroppo occorre prendere atto che, a settantasette anni di distanza da quei giorni, le donne si trovano ancora a doversi battere non solo per il lavoro e i diritti, ma addirittura per la loro stessa vita. Nonostante decenni di battaglie femministe, l’abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore nel 1981, il riconoscimento dello stupro come reato contro la persona e non contro la morale nel 1996, la visione del corpo femminile come oggetto da possedere e da sottomettere impregna ancora la cultura del nostro Paese.
Questo fatto, prima ancora che politicamente, è umanamente inaccettabile e su questo – lo dico prima di tutto da donna e da madre – non dovremo mai smettere di impegnarci e lottare senza sosta. Ma penso anche e soprattutto che ci sia una colossale necessità di un investimento culturale capace di rigenerare condizioni strutturali di fiducia nel futuro e di ascolto verso le nuove generazioni. Servirebbero davvero ore di educazione sociale, da quella civica a quella affettiva, partendo dalle famiglie e passando da tutte le scuole. Non mi pare più rinviabile.
I dati del disturbo psicologico, anche quelli regionali, dicono dei ragazzi in solitudine di fronte ai messaggi del web e dei social. Questi dati sono impressionanti. Assumere politicamente questo impegno ‒ lo abbiamo fatto in diverse Commissioni – è fondamentale. Un ragazzo, un bimbo oggi rischia di venire cresciuto da solo nel mare del web, nel deserto del web, dove gli adulti non ci sono e non ci sono stati. C’è un problema di analfabetismo affettivo. Il senso del corpo e della vita viene meno a partire dai primi anni di vita. Il web, i social non possono essere agenzie educative. Non si può vivere la solitudine davanti a web e social.
Noi adulti dobbiamo essere vicini ai bambini e ai ragazzi. Leggete questo dato: i bambini dai 6 ai 10 anni che usano internet tre mesi prima della rilevazione sono l’83,3 per cento; i ragazzi dagli 11 ai 14 anni che usano internet il 96,4 per cento. Scambiano messaggi, guardano video, videgiocano, guardano video a pagamento, utilizzano e-mail, frequentano i social, leggono notizie. Rischiano di essere bambini che si crescono da soli.
Mi chiedo: cosa fanno per ore davvero i bambini e i ragazzi su internet? Che contenuti guardano sui social? Che valori scambiano? Non è sufficiente pensare che, se sono in silenzio e sono tranquilli, va tutto bene. Insomma, penso ci sia un disagio psicologico e affettivo che interpella noi, interpella il mondo adulto.
Il tema del femminicidio affonda le radici nel deserto affettivo che c’è, che viene dai primi anni di vita, in cui i bambini sono stati soli. È un tema certamente complesso, che richiede un lavoro di analisi. Dove costruiscono la loro affettività? Dove imparano a gestire corpo, emozioni, pulsioni, sentimenti? Che modelli hanno i giovani di oggi? Guardo alla guerra di oggi, l’uso delle tecnologie manipolative delle immagini per indurre la cancellazione di emozioni e sentimenti umanissimi di fronte al male inflitto alla natura umana, sia nell’aggressione della Russia verso l’Ucraina, sia nell’aggressione terroristica di Hamas rispetto a Israele, sia nella risposta di Israele rispetto a Gaza. Non possiamo ignorare l’atroce e persistente fenomeno degli stupri di guerra. Lo stupro utilizzato come arma di terrore, con l’obiettivo di danneggiare il nemico, passando attraverso l’annientamento del corpo della donna. La neutralizzazione del corpo femminile.
Di fronte a queste deduzioni del dopoguerra, se è vero che non abbiamo la forza per determinare la fine di questi avvenimenti, abbiamo la responsabilità di occuparci delle conseguenze che quegli avvenimenti hanno già determinato nel modo di pensare della nostra società, nel modo di pensare dei nostri giovani. Educazione, quindi, ai valori, che sono gli stessi che servono a contrastare la malapianta delle discriminazioni verso chi è diverso, della violenza di genere, in particolare i drammatici femminicidi, a cui non dobbiamo abituarci mai.
Bisogna lavorare sui valori che ruotano intorno ai temi della fratellanza, della sorellanza, della solidarietà e dell’accoglienza. Dietro gli omicidi della violenza di genere, dietro le intolleranze ci sono questi valori e questi discorsi. Serve un’evocazione del senso di responsabilità, che tutti dobbiamo avere.
Mai come in questa fase della storia siamo di fronte alla crisi, soprattutto nella fase adolescenziale, al disorientamento, alla mancanza di senso, alla mancanza di gusto della vita, di prospettiva, di idea di futuro. C’è una incombente fragilità. Serve una responsabilità del mondo adulto e della politica, perché serve un interesse per gli obiettivi immateriali: la dimensione umana, il valore della persona, la centralità della persona, il rispetto della persona, dell’altro genere, di tutti gli altri.
La salute delle nuove generazioni ci interessa, ci riguarda, vogliamo occuparcene. Se c’è un rispetto della persona per quello che rappresenta dal punto di vista valoriale e della sua consistenza intrinseca, metà della soluzione l’abbiamo trovata. Viviamo nella stagione in cui si sta verificando lo “svuotamento dell’uomo dentro all’uomo”, dell’uomo dentro la persona umana. Il fenomeno di cui stiamo parlando oggi è complesso, è multistrato. Ridurre la complessità è sbagliato. Dunque, ci vuole l’impegno e la responsabilità di comprendere bene prima di agire. Quindi, mentre va avanti l’attività ordinaria della politica – i bilanci, le riforme, le riorganizzazioni – noi continueremo ad occuparci dei fondamentali su cui bisogna prestare attenzione.