Si sta per concludere la campagna elettorale più difficile e al tempo stesso più entusiasmante nella storia europea. La maggioranza populista che sorregge il governo italiano ha bruciato in pochi mesi il patrimonio di credibilità e di autorevolezza costruito nei decenni da chi ci ha preceduto.
Eravamo conosciuti come il paese del Manifesto di Ventotene, di Altiero Spinelli e di Alcide De Gasperi, il paese di Aldo Moro. Ancora alla fine degli anni Novanta eravamo il più europeista tra i Paesi fondatori, con altissime percentuali di fiducia popolare.
Si sta per concludere la campagna elettorale più difficile e al tempo stesso più entusiasmante nella storia europea.
La maggioranza populista che sorregge il governo italiano ha bruciato in pochi mesi il patrimonio di credibilità e di autorevolezza costruito nei decenni da chi ci ha preceduto.
Eravamo conosciuti come il paese del Manifesto di Ventotene, di Altiero Spinelli e di Alcide De Gasperi, il paese di Aldo Moro. Ancora alla fine degli anni Novanta eravamo il più europeista tra i Paesi fondatori, con altissime percentuali di fiducia popolare.
Abbiamo espresso un presidente della Commissione della statura di Romano Prodi, protagonista insieme a Carlo Azeglio Ciampi del risanamento dei conti pubblici dello Stato e dell’ingresso nella moneta unica.
Oggi, a neppure un anno di distanza dalla nascita, un governo di fatto privo di un premier legittimato dal voto e nelle mani di contraenti più impegnati a fare selfie sullo smartphone che a mantenere le promesse con cui hanno illuso gran parte degli italiani, ha consegnato al mondo un paese anomalo, inaffidabile, a tratti inquietante.
Eravamo atlantisti di provata lealtà, oggi vediamo Salvini e Conte rincorrere leader apertamente xenofobi quali l’ungherese Orban e stabilire alleanze future con forze politiche di estrema destra apertamente razziste e molto vicine al neofascismo e al neonazismo riapparso in mezza Europa, Italia compresa.
Eravamo considerati forza di stabilità e pace nel Medio Oriente e nei paese del Nord Africa: ci ritroviamo privi di una strategia in politica estera, al punto di dover ascoltare dal presunto capo del governo che nella crisi libica “non stiamo né con Serraj né con Haftar”, il che equivale a dire che non sappiamo quali pesci pigliare di fronte al rischio di una guerra civile che, Dio non voglia, provocherebbe una catastrofe umanitaria destinata a creare masse di profughi in fuga diretti in larga misura verso le nostre coste. Conte, davanti al dossier più delicato, quello sulla Libia, ha ridotto la politica estera italiana ad un selfie fatto a Palermo con Serraj e Haftar da mettere su Facebook, da far rilanciare da Rocco Casalino e da troll e finti profili.
Ed eravamo la quinta potenza industriale del mondo, ripresasi dagli effetti della grande crisi del 2008 grazie ai governi di centrosinistra, e ora siamo tornati in piena recessione. Dopo le bugie dell’autunno scorso, l’esecutivo ha dovuto ammettere nel Def che l’economia italiana non vede alcuna prospettiva di crescita nel 2019 e che – anzi – l’innalzamento dell’IVA al 25%, in ossequio alle clausole di salvaguardia poste in bilancio, non è un rischio possibile, ma una scelta quantomai probabile.
Sono tre le crisi, dunque, in cui ci ha portato l’attuale Governo. La prima, una crisi internazionale: l’Italia non conta più niente, è scomparsa. La seconda, la crisi economica: iniziata con la sceneggiata dal balcone di Luigi Di Maio in cui dice di avere abolito la povertà; partono da lì le condizioni per bloccare l’economia di questo Paese. Infine, la recessione culturale ed educativa: siamo nell’età dell’odio e delle aggressioni verbali e il responsabile si chiama Matteo Salvini.
In questo quadro fosco in economia, nel sociale, nella politica estera tanti italiani sono attratti da semplificazioni estreme e da soluzioni illusorie. Il tratto che accomuna questo orientamento è la paura. Paura del futuro. Paura di non farcela ad arrivare a fine mese. Paura per i propri figli e nipoti. Paura di non poter contare sulla sicurezza delle proprie aspettative.
Viviamo in Emilia-Romagna, Regione che meglio di ogni altra ha saputo reagire alla crisi e alla depressione con la voglia di fare, il coraggio di rilanciarsi nelle proprie capacità imprenditoriali e creative in un senso di appartenenza alla comunità che ci rende più forti e più solidali.
Ma credere di essere usciti dalla spirale del declino senza agire sarebbe un errore madornale. In un paese politicamente isolato sul piano internazionale, disunito al suo interno e sempre più incline al localismo e alla chiusura in se stesso, non potrà mai esistere una prospettiva di rilancio.
I nazionalismi, quando diventano esasperati, producono ostilità e conflitti.
Delle due l’una: o si crede nell’unità dell’Europa – e allora si vota e ci si impegna nella forza di centrosinistra che pone al centro della propria azione, pur tra mille limiti, i valori intangibili della solidarietà, della fratellanza, del rispetto dell’uomo, della giustizia sociale, della libera circolazione delle idee, delle persone e del lavoro;
oppure ci si rassegna a tentazioni autoritarie, spacciate attraverso i media tradizionali e i social media come formule salvifiche e miracolistiche per chi, anche in buona fede, ci casca, consegnando la propria adesione a personaggi improvvisati, senza storia e senza competenza.
In Emilia lo sappiamo bene: pace, democrazia e prosperità derivano da una visione comune della vita. Dalla collaborazione e non dalla sfiducia. Dall’apertura al mondo e non dal sospetto. Dall’integrazione e non dall’esclusione. Dalla speranza e non dalla rassegnazione.
Impegniamoci personalmente, in queste ultime ore, parlando con famigliari, amici, conoscenti; facciamolo per i nostri figli perché un Paese che continua ad essere alimentato dall’odio e dal rifiuto dell’altro è un Paese più debole. Votare PD e far votare PD è ciò che serve, oggi, all’Italia.
Abbiamo espresso un presidente della Commissione della statura di Romano Prodi, protagonista insieme a Carlo Azeglio Ciampi del risanamento dei conti pubblici dello Stato e dell’ingresso nella moneta unica.
Oggi, a neppure un anno di distanza dalla nascita, un governo di fatto privo di un premier legittimato dal voto e nelle mani di contraenti più impegnati a fare selfie sullo smartphone che a mantenere le promesse con cui hanno illuso gran parte degli italiani, ha consegnato al mondo un paese anomalo, inaffidabile, a tratti inquietante.
Eravamo atlantisti di provata lealtà, oggi vediamo Salvini e Conte rincorrere leader apertamente xenofobi quali l’ungherese Orban e stabilire alleanze future con forze politiche di estrema destra apertamente razziste e molto vicine al neofascismo e al neonazismo riapparso in mezza Europa, Italia compresa.
Eravamo considerati forza di stabilità e pace nel Medio Oriente e nei paese del Nord Africa: ci ritroviamo privi di una strategia in politica estera, al punto di dover ascoltare dal presunto capo del governo che nella crisi libica “non stiamo né con Serraj né con Haftar”, il che equivale a dire che non sappiamo quali pesci pigliare di fronte al rischio di una guerra civile che, Dio non voglia, provocherebbe una catastrofe umanitaria destinata a creare masse di profughi in fuga diretti in larga misura verso le nostre coste. Conte, difronte al dossier più delicato, quello sulla Libia, ha ridotto la politica estera italiana ad un selfie fatto a Palermo con Serraj e Haftar da mettere su Facebook, da far rilanciare da Rocco Casalino e da troll e finti profili.
Ed eravamo la quinta potenza industriale del mondo, ripresasi dagli effetti della grande crisi del 2008 grazie ai governi di centrosinistra, e ora siamo tornati in piena recessione. Dopo le bugie dell’autunno scorso, l’esecutivo ha dovuto ammettere nel Def che l’economia italiana non vede alcuna prospettiva di crescita nel 2019 e che – anzi – l’innalzamento dell’IVA al 25%, in ossequio alle clausole di salvaguardia poste in bilancio, non è un rischio ma una scelta quantomai probabile.
Sono tre le crisi, dunque, in cui ci ha portato l’attuale Governo. La prima, una crisi internazionale: l’Italia non conta più niente, è scomparsa. La seconda, la crisi economica: iniziata con la sceneggiata dal balcone di Luigi Di Maio in cui dice di avere abolito la povertà; partono da lì le condizioni per bloccare l’economia di questo paese. Infine, la recessione culturale ed educativa: siamo nell’età dell’odio e delle aggressioni verbali e il responsabile si chiama Matteo Salvini.
In questo quadro fosco in economia, nel sociale, nella politica estera tanti italiani sono attratti da semplificazioni estreme e da soluzioni illusorie. Il tratto che accomuna questo orientamento è la paura. Paura del futuro. Paura di non farcela ad arrivare a fine mese. Paura per i propri figli e nipoti. Paura di non poter contare sulla sicurezza delle proprie aspettative.
Viviamo in Emilia-Romagna, Regione che meglio di ogni altra ha saputo reagire alla crisi e alla depressione con la voglia di fare, il coraggio di rilanciarsi nelle proprie capacità imprenditoriali e creative in un senso di appartenenza alla comunità che ci appartiene e ci rende più forti e più solidali.
Ma credere di essere usciti dalla spirale del declino senza agire sarebbe un errore madornale. In un paese politicamente isolato sul piano internazionale, disunito al suo interno e sempre più incline al localismo e alla chiusura in se stesso, non potrà mai esistere una prospettiva di rilancio.
I nazionalismi, quando diventano esasperati, producono ostilità e conflitti.
Delle due l’una: o si crede nell’unità dell’Europa – e allora si vota e ci si impegna nella forza di centrosinistra che pone al centro della propria azione, pur tra mille limiti, i valori intangibili della solidarietà, della libertà di idee, di circolazione delle persone e del lavoro, della fratellanza e della giustizia sociale;
oppure ci si rassegna a tentazioni autoritarie, spacciate attraverso i media tradizionali e i social media come formule salvifiche e miracolistiche per chi, anche in buona fede, ci casca, consegnando la propria adesione a personaggi improvvisati, senza storia e senza competenza.
In Emilia lo sappiamo bene: pace, democrazia e prosperità derivano da una visione comune della vita. Dalla collaborazione e non dalla sfiducia. Dall’apertura al mondo e non dal sospetto. Dall’integrazione e non dall’esclusione. Dalla speranza e non dalla rassegnazione.
Impegniamoci personalmente, in queste ultime ore parlando con famigliari, amici, conoscenti, facciamolo per i nostri figli perché un paese che continua ad essere alimentato dall’odio e dal rifiuto dell’altro è un paese più debole. Votare PD e far votare PD è ciò che serve, oggi, all’Italia.