Il 2 aprile si è conclusa la prima fase congressuale del Partito democratico, quella dedicata ai soli iscritti. Con 13667 voti, pari al 63,25%, i tesserati Pd dell’Emilia Romagna hanno sostenuto fortemente la continuità della linea espressa da Matteo Renzi, chiedendo la sua conferma a segretario del partito. Un segnale importante, che letto insieme all’affermarsi sempre qui in Regione del SI al referendum del 4 dicembre scorso, ci mostra quanto stia prevalendo, in Emilia Romagna, una forte spinta verso il cambiamento.
È vero, Renzi ha davvero cambiato il Partito democratico, ma non nel modo in cui molti detrattori dell’ex premier dichiarano. Il Pd è cambiato perché è rimasto modellato da un progetto e dalla spinta di una forza riformista nuova, che intende superare i limiti e i difetti della vecchia sinistra. L’idea di qualcuno che il Pd fosse ancora la “vecchia ditta” ha dovuto fare i conti con la portata, le aspettative e le novità che Renzi ha rappresentato nel palcoscenico della sinistra italiana: una leadership con un chiaro messaggio nazionale di cambiamento, l’idea di un riformismo reale e concreto dopo anni di riformismo mancato, la vocazione maggioritaria come perno delle azioni di consenso.
Sono ancora fermamente convinta che all’Italia occorra un sistema maggioritario con l’alternarsi di due grandi partiti plurali. Assistiamo, invece, a ciò che chi sosteneva il SI al referendum costituzionale aveva prospettato: una deriva proporzionalistica con un chiaro rischio di ingovernabilità e un sistema politico frammentato in tanti micropartitini che condizioneranno pesantemente ogni decisione. Le riforme di cui l’Italia ha ancora bisogno saranno difficili da attuare senza una robusta maggioranza in Parlamento; ci si accontenterà di piccoli compromessi, evitando di puntare su riforme veramente strutturali.
700 mila posti di lavoro in più, un PIL che è tornato a crescere recuperando parte del terreno perso durante la crisi, lo sblocco di grandi infrastrutture e la gestione di grandi eventi: in campo economico gli anni del governo Renzi hanno portato importanti risultati. Non possiamo inoltre dimenticare i progressi nel sociale e nei diritti: il “dopo di noi”, la legge sullo spreco alimentare, quella contro il caporalato, quella sull’agricoltura sociale, gli investimenti nelle periferie, le unioni civili, il SIA e il reddito di inclusione per le povertà, la legge sull’autismo, quella sulla cooperazione internazionale, sui minori non accompagnati e quella sul Terzo settore. Abbiamo investito 7 miliardi di euro sulla scuola, stabilizzando migliaia di precari; abbiamo sostenuto il rientro in Italia dei ricercatori e finalmente cessato di tagliare fondi alla sanità, innalzando anzi i livelli essenziali introducendo nuovi farmaci e nuove prestazioni.
Da qui al 30 aprile la posta in gioco è semplice: dare continuità ad una linea di riformismo, unico argine al completo blocco dell’innovazione del Paese. Renzi ha speso molte delle proprie energie nell’attività governativa, dedicandosi forse in minor modo alla costruzione del radicamento territoriale del partito e della sua classe dirigente. Ma, questi, sono processi che richiedono tempo. Rinunciare del tutto alla forza di quell’esperienza, interrompendo il lavoro di questi anni, sarebbe sbagliato.
Paese, Europa, Partito: intorno a questi tre assi ruota la mozione Renzi-Martina. Continuare, dunque, a leggere i bisogni di chi vive l’Italia, ad anticipare i problemi prima che si manifestino, a offrire risposte pragmatiche a una società che cambia, assumendosi la responsabilità delle risposte date. Tutto ciò in un quadro decisamente europeista: non ci deve frenare la fragilità del nostro continente, anzi, quel progetto ideale, etico, di convivenza civile, di libertà di viaggiare, di scambio tra i popoli e tra le culture non può assolutamente andare a rotoli. Molte cose vanno rimodellate in questa Europa del 2017; è incidendo e intervenendo sui problemi che si acquista credibilità, molto di più che semplicemente “sbattendo i pugni sul tavolo”. Sul tema dei migranti, ai banchi dell’Onu e della Nato abbiamo saputo mantenere un atteggiamento serio, lungimirante, a volte in controtendenza rispetto a tutti gli altri. Sono meriti che vanno riconosciuti, nello stesso modo di quelli economici. Infine, interveniamo sul Partito. Iniziamo sfatando il tabù del leader. Una formazione politica nel 2017 ha bisogno di un leader e occorre che sia forte, credibile, autorevole, capace di “strappare” quando serve: in poche parole, qualcuno in grado di prendere decisioni. Rendite di posizione, incrostazioni, stratificazioni, corporazioni burocratiche dure da intaccare, lobby; questo è un paese dove se solo cambi una virgola sembra che caschi il mondo. Il partito-comunità, quello dove tutti decidono e poi alla fine non decide nessuno, non è in grado di scalfire questo sistema. In Italia se hai intenzione di cambiare qualcosa devi, talvolta, aprire una “frattura”; se pretendi di avere l’accordo all’unisono di datori di lavoro, sindacati, tecnici, burocrati, non combinerai mai nulla.
Due ulteriori considerazioni. Innanzitutto, la richiesta di separare la carica di segretario da quella di candidato premier non mi trova d’accordo. A livello europeo e nei tavoli che contano abbiamo raggiunto certi risultati perché Matteo Renzi guidava la più grande comunità politica europea. Da Theresa May ad Antonio Costa, da Zapatero a Schroeder: l’identità tra guida del governo e guida del partito di maggioranza è scritta, oltre che nello Statuto del Pd, soprattutto nella consuetudine costituzionale di tutta Europa e chiama in causa la forza del messaggio della nostra comunità. Quanto avrebbe resistito Renzi con un segretario diverso da lui? Cosa avremmo portato a casa? Il segretario del Pd non può parlare esclusivamente dell’organizzazione della militanza, per quanto importante, ma deve avere visione di governo del Paese e deve essere nelle condizioni di metterla in pratica. Su questo punto dobbiamo essere fortemente decisi.
Secondo: il calo fisiologico degli iscritti deve farci riflettere, ma non spaventarci, e precede di gran lunga la segreteria Renzi. Il partito “pesante” che aveva in mente Bersani vedeva già questo fenomeno. Il calo degli iscritti nelle grandi formazioni politiche europee è un processo iniziato negli anni ’80 e ha a che fare con le forme di aggregazione moderne che oggi sono mutate. Nuove strade vanno percorse: non solo i tradizionali circoli, le feste de l’unità, stimoli certo rilevantissimi, ma occorre immaginare canali di partecipazione alternativi, come, ad esempio, gli incontri tematici con i cittadini coinvolti direttamente su specifici argomenti.
In conclusione, la questione non è Matteo Renzi si, Matteo Renzi no; la forza non sta nella persona in sé, ma nella esperienza di questi anni e nell’idea riformista di cui è portatore. Avanti, insieme con Renzi e Martina per appassionare le persone a un progetto politico che in questa fase può assicurare democrazia, partecipazione, attenzione ai più deboli e uno sguardo verso il futuro.